Era l’Anno Senza Estate, il 1816.
Mary Shelley era a Ginevra con suo marito Percy Bysshe Shelley, ospite della sorellastra di lei e del suo amante, Lord Byron. C’è anche lo scrittore John Polidori, con loro. A Ginevra piove, il freddo costringe tutti a restare rintanati in camera, è un maggio senza grazia. Sono tutti giovani, tutti artisti, tutti annoiati dal carcere imposto dal tempo inclemente. Tutto quello che possono fare è leggere storie di moda a quel tempo, un misto di gotico e horror ante litteram, e inventarne di nuove. Mary ha 19 anni, partecipa alle discussioni dell’epoca incentrate sulle teorie di Darwin, l’evoluzione della specie, i timori della manipolazione dell’uomo sulla vita. Probabilmente per questo, nel dormiveglia svogliato di una primavera inoltrata che non esiste, ha davanti a sé l’incubo che le ispirerà uno dei romanzi più famosi di ogni tempo: Frankenstein, o il moderno Prometeo.
“Vedevo a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo”
Una scommessa, un gioco fra ragazzi, seppur colti e navigati, trasformerà l’incubo di una diciannovenne in un capolavoro assoluto. Quel gruppo vivrà una vita travagliata e, per alcuni, troppo breve.
Percy Bysshe Shelley morirà annegato a Viareggio a 30 anni.
Lord Byron finirà in Grecia i suoi giorni, nel delirio delle febbri, a 36 anni.
A John Polidori toccherà una morte oscura, a 25 anni.
Mary vide la propria fortuna letteraria e la disperazione più nera, incubi ben peggiori di quello che le diede notorietà: perse due figli ancora bambini, ebbe un aborto spontaneo, non vide il marito far ritorno da una gita in barca e morì a 53 anni, dopo una lunga malattia, forse un tumore al cervello. A darle conforto, l’unico figlio sopravvissuto e tanta, immensa stima da parte dei letterati di tutto il mondo per i suoi scritti, non solo il Frankenstein.
Si scriverà tanto sul Frankenstein, sui motivi del successo folgorante che lo ha reso una pietra miliare nel mondo della letteratura.
Perché scava nelle paure più tetre.
Perché non nasconde i lati oscuri, ossessivi e malati della mente umana.
Perché è quel “diverso” che spaventa, attrae, ripugna, che pure è dentro ognuno.
Perché supera i limiti etici, e alza l’asticella del lecito, di fatto sfondandone gli argini.
Perché dovrà sempre esistere un nuovo Prometeo che sfida gli dei, le convenzioni, quel che viene ritenuto certo, per permettere all’umanità di evolvere ancora e ancora.
I motivi sono tanti, il romanzo è più che noto, e le impressioni che ne ricava il lettore sono più personali che mai perché personale e del tutto originale è stata la genesi del romanzo stesso.
Quello che resta, è l’incubo di una giovane donna ad accompagnarci in un eterno che solo la letteratura può regalare.