Oggi è l’8 marzo e inizia la corsa alla sviolinata più melliflua verso il genere al quale appartengo. Mi regaleranno un cespuglietto di mimosa che mi farà venire gli occhi rossi e mi farà chiudere la gola, e dovrò anche ringraziare. Continuerò, però, a subire la violenza di sentirmi chiedere durante un colloquio di lavoro “lei vuole avere figli? E’ sposata? Indosserà la gonna, spero, noi qui ci teniamo all’abbigliamento”. Per non parlare di cose più ordinarie, come “ma tu cosa ne sai di calcio?/ Voi donne non sapete guidare/ Una donna senza figli è inutile/Dovete allattare altrimenti il bambino cresce male”. Tutto questo me lo rifila, a me e ad altre donne, quell’esercito di uomini che oggi ci concederà il permesso di uscire a mangiare una pizza e di fare le pazzerelle in giro (yuppi, i Centocelle nudi!). Quei prostata-muniti parleranno in pubblico, patrocineranno convegni, mi diranno cosa posso e cosa non posso fare, cosa posso e cosa non posso essere, mi indicheranno la strada per essere una “vera donna”. Perché non si discute mai la modalità dell’essere uomo, ma su come essere donna ci sono quintali di trattati. Mia colpa non aver letto nulla al riguardo.
Non si parlerà, però, degli asili pubblici per le mamme che lavorano, delle disuguaglianze nel mondo del lavoro, della 194 messa in discussione ogni 20 minuti, della discriminazione radicata che però fa un sacco ridere, è satira, suvvia. Come ogni anno, insomma, celebreranno il mio essere femmina, non il mio essere donna. Come ogni anno, non parteciperò a questo collettivo pisciare sul mio genere se non con questo solo post.
E visto che non è semplice far capire di cosa parlo, oggi prendo in prestito le parole del Subcomandante Marcos, come spesso mi capita di fare. Un prostata-munito, sì. Il Sup parte da un fatto preciso (le violenze della polizia messicana sulle manifestanti ad Atenco, nel maggio 2006) e arriva a fare un discorso molto più ampio, che non tocca solo il Messico. Ho aggiunto solo quelle parti; per il testo completo con tanto di file audio (ascoltatelo, merita) potete consultare il sito Enlace Zapatista, mentre la traduzione è qui.
Buon 8 marzo alle “mujeres sin miedo”, alle donne senza paura, perché “è tanto bella una donna in piedi che dà i brividi solo guardarla”. Ancora più stretto è l’abbraccio alle donne che di paura ne hanno tanta, ogni giorno, e sono trasparenti agli occhi di chi oggi pretende di celebrarle.
“Mi chiamo Marcos e tra i molteplici difetti individuali che ho, a volte con cinismo e disinvoltura, c’è quello di essere uomo, maschio. Come tale, mi porto addosso, e non poche volte mi fa inalberare, una serie di stereotipi, di luoghi comuni, di evidenze. Non solo per quello che si riferisce al mio sesso o genere, ma anche e soprattutto per quanto si riferisce alla donna, al genere femminile. Ai difetti che mi caratterizzano individualmente, qualcuno aggiungerebbe quelli che abbiamo come zapatisti, ad esempio quello di non aver ancora perso la capacità di stupirci, di meravigliarci. Come zapatisti ci affacciamo a volte ad altre voci che sappiamo altrui, estranee e tuttavia, simili e nostre lo stesso. Voci che stupiscono e meravigliano il nostro ascolto con la loro luce… e con la loro ombra. Voci, per esempio, di donne.
Dal collettivo che ci dà viso e nome, passo e cammino, ci sforziamo di scegliere dove dirigere l’ascolto ed il cuore. Cosicché ora scegliamo di sentire la voce delle donne che non hanno paura. Si può ascoltare una luce? E se così fosse, si può ascoltare un’ombra? E chi altro sceglie, come noi oggi, di impegnare l’ascolto ed anche il pensiero ed il cuore, per sentire quelle voci? Abbiamo scelto. Scegliamo di star qui, di ascoltare e di farci eco di un’ingiustizia commessa contro delle donne. Scegliamo di non aver paura di ascoltare chi non ha avuto paura di parlare. Il corpo della donna preso con violenza, usurpato, aggredito per ottenere piacere. È che per quelli lassù in alto, queste macchine di piacere e di lavoro che sono i corpi delle donne, includono le istruzioni di montaggio che il sistema dominante assegna loro. Se un essere umano nasce donna, durante la sua vita deve percorrere una strada che è stata costruita proprio per lei.
Essere bambina. Essere adolescente. Essere una donna giovane. Essere adulta. Essere matura. Essere anziana.
E non solo dalle prime mestruazioni alla menopausa. Il capitalismo ha scoperto che nell’infanzia come pure nella vecchiaia si possono utilizzare come oggetti di lavoro e piacere, e per l’appropriazione e la gestione di questi oggetti abbiamo da tutte le parti “Governanti Preziosi” ed industriali pedofili. La donna, dicono lassù in alto, deve camminare per la vita implorando perdono e chiedendo il permesso di e per essere donna. E percorrere una strada irta di filo spinato. Una strada che bisogna percorrere strisciando, con la testa ed il cuore raso terra. Ed anche così, nonostante si seguano le istruzioni di montaggio, continuare a raccogliere graffi, ferite, cicatrici, colpi, amputazioni, morte. E cercare la responsabile di quei dolori in se stessa, perché nel crimine di esser donne è compresa la condanna. Nelle istruzioni di montaggio della merce “Donna”, si spiega che il modello deve sempre tenere la testa bassa, che la sua posizione più produttiva è in ginocchio, che il cervello è prescindibile e, non poche volte, la sua inclusione è controproducente, che il suo cuore deve alimentarsi di frivolezze, che il suo coraggio deve basarsi sulla competizione con il suo stesso genere per attirare il compratore, quel cliente sempre insoddisfatto che è l’uomo, che la sua ignoranza deve continuare ad essere alimentata per garantire un miglior funzionamento, che il prodotto ha capacità di automantenimento e miglioramento (per questo c’è un’ampia gamma di prodotti, oltre ai saloni ed ai laboratori di riparazione e verniciatura), che non deve solo imparare a ridurre il suo vocabolario al “sì” e “no”, ma, soprattutto, deve imparare quando è giusto dire quelle parole. Nelle istruzioni di montaggio del prodotto chiamato “Donna” c’è la garanzia che terrà sempre la testa bassa. E che, se per qualche difetto di fabbricazione involontario o premeditato, qualcuna alza lo sguardo, allora l’implacabile falce del Potere le mozzerà la sede del pensiero e la condannerà a procedere solo come se essere donna fosse qualcosa per cui bisogna chiedere scusa e per cui bisogna chiedere permesso. Una pallottola, una manganellata, un pene, una sbarra, un giudice, un governo ed infine un sistema: alla donna che non chiede scusa né permesso, applica un’avvertenza che recita “Fuori Servizio. Prodotto Non Riciclabile”. La donna deve chiedere permesso per essere donna e le è concesso solo se lo è secondo quanto indicato nelle istruzioni di montaggio. La donna deve servire l’uomo, seguendo sempre queste istruzioni, per essere assolta dal crimine di essere donna. In casa, nei campi, in strada, a scuola, nel lavoro, nei trasporti, nella cultura, nell’arte, nello svago, nella scienza, nel governo, 24 ore al giorno e per 365 giorni all’anno, da quando nascono fino a che muoiono, le donne affrontano questo procedimento di montaggio.
Ma ci sono donne che lo affrontano con ribellione. Donne che invece di chiedere il permesso, impongono la loro esistenza. Donne che invece di implorare perdono, esigono giustizia. Perché le istruzioni di montaggio dicono che la donna deve essere sottomessa e camminare in ginocchio. E, tuttavia, alcune donne osano camminare erette. Ci sono donne che stracciano le istruzioni del montaggio e si alzano.
Ci sono donne senza paura.
Dicono che quando una donna avanza, non c’è uomo che retroceda. Dipende, dico io dal mio maschilismo di ritorno, un miscuglio di Pedro Infante e José Alfredo Jiménez. Dipende, per esempio, se l’uomo sta davanti alla donna che avanza. Il mio nome è Marcos, ho il difetto personale di essere uomo, maschio, e la virtù collettiva di essere quello che noi siamo, quelle che noi siamo: zapatiste. Come tale, come tali, confesso che mi stupisce e meraviglia vedere una donna alzarsi e fare a pezzi le istruzioni del suo montaggio.
È tanto bella una donna in piedi che dà i brividi solo guardarla. Ed ascoltare è questo, imparare a guardare…
Salute a queste donne, alle nostre compagne detenute ed a quelle qui riunite. Salute al loro non aver paura.
Salute al valore con cui ci contagiate, alla convinzione che ci trasmettete: che se non facciamo niente per cambiare questo sistema siamo suoi complici”.