Sylvia Plath non voleva morire, dicono.
Ha spalmato il burro sul pane, ha scaldato il latte, ha portato la colazione ai figli, poi ha sigillato porte e finestre, ha acceso il forno a gas e c’ha infilato la testa dentro. Ha lasciato un biglietto con il numero del medico e sapeva che quella mattina avrebbe ricevuto una visita.
Questo basta per affermare che Sylvia Plath voleva solo attirare l’attenzione sul suo dolore, ma non morire davvero. A morire c’aveva già provato, poi è stata ricoverata, curata, ha preso la laurea, s’è sposata, ha messo al mondo un paio di figli.
Fatto sta che Sylvia Plath è morta a 30 anni, in ginocchio, con la testa nel forno. Se non avesse voluto morire, non si sarebbe inginocchiata davanti al forno acceso, ma io son semplice.
“Dying is an art, like everything else. I do it exceptionally well.
I do it so it feels like hell.
I do it so it feels real.
I guess you could say I’ve a call”.
È morta senza voler morire pur essendo convinta di farlo benissimo, perché alla fine moriva ogni giorno da quand’era nata.
Come tutti, ma non proprio tutti.
Sylvia Plath nasceva oggi, nel ’32, e moriva sola e intossicata nel febbraio del ’63, probabilmente perché ha desiderato e ottenuto solo le cose che, alla fine, l’hanno distrutta.
Come tutti, ma non proprio tutti.
Alla fine sarà vero che se sei sano di mente, pensi almeno una volta nella vita a sigillare porte e finestre e accendere il forno. Peccato che ormai sono tutti elettrici e bisogna campare.