#AneddotiLetterari: Charlotte Brontë e lettere d’amore che gli uomini non meritano

Charlotte Brontë è vissuta poco. Moriva oggi, 31 marzo, nel 1855. Era nata il 21 aprile del 1816. Ho letto “Jane Eyre” a 13 anni, forse a 14, e ammetto di essermi annoiata molto, all’inizio. Alcune parti del romanzo erano desolanti (già l’ambientazione era funerea, e io l’ho letto d’estate, col sole splendente e la granita alla menta in mano). Poi scoprii che, più o meno, l’infanzia mostruosa di Jane in un certo senso è simile a quella di Charlotte.

Terza di sei fratelli, la madre muore di tumore e sfiancata dai parti ravvicinati quando Charlotte ha 5 anni. A prendersi cura della famiglia c’è la zia Elizabeth e la tata Tabby, ma il padre decide comunque di mandarla in una specie di collegio con le sue sorella maggiori, Maria e Elizabeth, e con la minore, Emily. Quel collegio era un incubo trasportato nella realtà: maltrattate, mal nutrite, ammalate e non curate, le allieve vivevano nella sporcizia, nonché esposte al freddo. Le sorelle maggiori morirono per i postumi di malattie sviluppate in collegio, Charlotte e Emily sopravvissero, ma ne portarono i segni per tutta la vita.

A 25 anni molla l’Inghilterra e, insieme a Emily, si trasferisce a Bruxelles per perfezionare il francese, ampliare le competenze e aprire una scuola tutta sua. Succede però che Charlotte si innamora del suo professore. Non è proprio una cosa strana, capita, solo che Constantin Heger non la ricambia. È sposato, tiene famiglia (non che questo fosse un problema, allora come oggi) e a malapena le risponde. La moglie di lui trova le lettere strappate con disprezzo da Heger, le ricuce pensando di trovare le prove di un tradimento, e invece nulla. Era lei ad amare lui, a scrivere lettere bellissime e non apprezzate. Pare addirittura che il valoroso Heger, anziché affrontare la situazione, abbia chiesto a sua moglie di scrivere a Charlotte e mettere in chiaro i limiti della loro relazione e della corrispondenza. Questo quando Charlotte era già tornata in Inghilterra. Le arrivò una lettera di Madame Heger che la invitava a scrivere non più di una lettera ogni sei mesi.

Constantin Heger cuor di leone.
Le lettere della Brontë sono belle perché non parlano semplicemente d’amore (cosa banale) ma di affetto reale, vero, un complesso miscuglio di amicizia, stima, rispetto, candore. Lui la chiamava “esaltata con pensieri cupi” lei lo implorava di non negarle la sua amicizia, di non negarle quelle briciole che cadono dalla tavola del ricco. Quanto fastidio potevano davvero arrecare delle lettere spedite da un paese lontano, da una giovane donna innamorata? Evidentemente molto, oppure, ancora più evidente, Heger era uno stronzo.
Amen.
Essere oggetto di affetto e amore non dovrebbe essere una sfortuna, dovremmo essere felici di aver trovato qualcuno che ci apprezzi fino a quel punto, anche quando non possiamo ricambiare. Penso, in modo sempre più roccioso, che l’amore e l’affetto debbano essere meritati, per non rischiare di ritrovarsi come Charlotte, a implorare una parola di stima da un uomo che ben poca ne meritava. Bisogna essere signori con chi ci ama, almeno per non far capire all’altro che sta sbagliato di grosso sul nostro conto.
Charlotte Brontë ha evidentemente preso una cantonata: Heger era quello che s’è fatto togliere le castagne dal fuoco da sua moglie, mica quello che lei, Charlotte, definiva “maestro”.
Il maestro degli stronzi, se proprio. Uno di quelli che non merita mica le lettere d’amore ben scritte, fondamentalmente perché non le sa leggere.
Chissà se Charlotte avrà capito d’essere stata molto, molto fortunata, per il fatto che un uomo così fosse il marito di un’altra e non il suo.
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