subcomandante

Ombre di tenera furia e zapatismo letterario

Nosotros somos sombras de tierna furia, nuestro paso cubrirá otra vez el cielo.

Noi siamo ombre di tenera furia e il nostro passo coprirà il cielo, diceva il (fu) Subcomandante Insurgente Marcos  in un comunicato del 15 marzo 1994. Erano passati 74 giorni da quel levantamiento, dalla rivolta fatta di fucili di legno e la disperazione di un popolo che “nella notte lunga 500 anni” continuava a non esser visto, a non esistere.
Il passamontagna a coprire il viso, coprirsi il viso per essere visti, nati nella notte e destinati a morirci e però la luce arriverà, dice Marcos, per tutti quelli che oggi piangono di notte, per quelli cui il giorno viene negato e per i quali la morte è un regalo. La Quarta Dichiarazione della Selva Lacandona, 1° gennaio 1996, un’opera letteraria e un manifesto politico che vale un romanzo.

Un’invenzione, Marcos, El Sup è un tranello nato dall’astuta intelligenza indios. “Un meticcio tra gli indigeni”, gli dicono, “t’ascolteranno”. E così fu. Marcos lo spiega in quei giorni di maggio del 2014 quando, per onorare il compagno Galeano, ne prende il nome.
Marcos è morto, viva Galeano, ma Marcos non esisteva e non può morire. Todos somos Marcos, si scandiva, nel romantico pensiero di redenzione per gli oppressi, gli ultimi. L’EZLN compie 34 anni, 23 sono passati da quando questo giovane col passamontagna, dizione impeccabile, figura slanciata e sguardo sarcastico diceva “scusate il disturbo, questa è una rivoluzione”.

Chi ha seguito il percorso mediatico da rockstar di Marcos, corteggiato da una sinistra europea che, negli anni ’90, ha imboccato un declino oggi evidente, ha perso le tracce del Sup più o meno nel 2001, anno del G8 di Genova, delle contestazioni, dell’entrata trionfale dell’EZLN a Città del Messico, con centomila messicani ad acclamare chi aveva ancora il coraggio di avere un sogno. Di quei giorni, restano interviste meravigliose ad un Marcos divertito e leggermente imbarazzato, già noto per un talento letterario che rendeva, e rende, i comunicati zapatisti dei veri e propri racconti, delle perle. Nulla da spartire con i toni da terrore dell’ETA, tanto che resta un duro carteggio tra le due organizzazioni, e il portavoce zapatista è irremovibile nella posizione di non ricorrere al terrorismo per la causa indigena.

Gli indigeni non hanno mai puntato ad una separazione, ma ad un’indipendenza che permetta di rispettare e non dimenticare lingue, costumi, culture, abitudini di chi il Messico lo abitava ben prima dell’arrivo europeo. Sono messicani, vogliono far parte del loro paese. A chi chiedeva “cos’è l’Ezln?”, Marcos rispondeva “siamo un esercito ma anche un movimento popolare, ognuno porta la sua cultura, il suo umorismo, la sua esperienza“. L’EZLN non ha un credo religioso, ha un solo orientamento: la lotta al neoliberismo. Popolare come il calcio e sono tanti i riferimenti al futbol moderno e vintage, all’Inter morattiana e ai Giaguari del Chiapas, fino alla squadra più vincente e odiata del Messico, l’América, il cui motto della curva è “Ódiame más”.

Marcos ha creato, nel tempo, personaggi letterari che spiegassero cosa pensa e come agisce il movimento di cui lui era solo un portavoce, uno dei comandanti che parlava a nome di migliaia. Don Durito e il vecchio Antonio, un romanzo a quattro mani con Paco Taibo II, l’ammirazione di due nobel, Octavio Paz (non esattamente di sinistra) e Josè Saramago. A quest’ultimo toccherà l’ira di una insurgente profondamente devota che replicherà punto per punto al suo “Vangelo secondo Gesù Cristo”, con grande divertimento del Sup che riporta l’aneddoto.

Quello che per le autorità messicane è un ex professore di filosofia, oggi quasi sessantenne, dunque, non esiste. Mentre sua sorella, se di Rafael Sebastian Guillen Vicente davvero si tratta, ricopre una carica nel governo di Peña Nieto. Fu proprio la ministra che dieci anni fa cercò di dichiarare ufficialmente la morte presunta di Marcos e il guerrigliero, per tutta risposta, emise un esilarante comunicato zeppo di riferimenti attuali, nel suo stile più noto. Per dire: sono io e sono vivo. L’anno scorso Rafael Vicente ha smesso di essere un ricercato, sono prescritte tutte le accuse. Lapidario Galeano: “finalmente il tampiqueño è libero e prescrivetemi stocazzo”.

Un’invenzione letteraria, il Sup, che a sua volta crea letteratura, ma se Marcos e Galeano sono uno strumento a uso e consumo della causa, sono invece noti i progressi che l’organizzazione ha portato al Chiapas. Ospedali, scuole, lavoro, una voce per i muti. Il fiore della parola non muore, per gli zapatisti, muore chi la pronuncia, quel viso coperto dal passamontagna può sparire, ma la parola è stata seminata, germoglia. Resta.

“Casa, terra, lavoro, pane, salute, istruzione, indipendenza, democrazia, libertà, giustizia e pace”, scandisce el Sup, queste le esigenze degli indios, e non solo. Sempre aperti e sempre pronti alle discussioni utili, in procinto di candidare una donna indigena alla presidenza messicana, attirandosi critiche cui rispondono nel merito, gli zapatisti continuano ad esistere, a mutare modalità di lotta ma non il fine. Terminati da un pezzo i tempi che vedevano Marcos col mitra in mano, terminata anche l’epoca del Marcos sex symbol. Invecchiato, ingrassato (“gordito ma bonito”, rispose anni fa quando lesse delle ironie sull’evidente trippa che aveva messo su) ma vigile e sarcastico, pronto a lasciare il testimone alle nuove leve indigene che non erano ancora nate nel 1994.

“Il mio supposto talento letterario ha creato questo mito romantico dell’uomo bianco tra gli indigeni” dice Marcos a Julio Scherer, in un’intervista del 2001, alle 3 del mattino. Il giornalista insiste, cerca di fargli riconoscere il suo carisma, Marcos ride, ancora giovane, esausto da quel tour, ma soddisfatto di sé e dell’Ezln. “C’è un vuoto, io come portavoce del movimento sono qui per riempirlo” ed è così che il Sup spiega il suo successo personale.

Poesie, lettere, comunicati, romanzi, racconti e anche un’opera erotica, uscita in edizione limitata non esattamente a buon prezzo per lenire due mali degli zapatisti, a detta del Sup: la penuria di soldi per i progetti e l’onanismo necessariamente dilagante nelle truppe relegate nella selva. “Noche de fuego y de desvelo”, Elìas che scrive lettere appassionate a Magdalena, in cui cerca di trovare il modo di incastrare i loro mondi, tra geografie e chilometri, con scarsi risultati. E in tutta quella letteratura e poesia, Elìas ad un certo punto ammette: “Magdalena, vorrei solo dirti che mi piaci e vorrei avvicinarmi a te”. Quello che Marcos/Elìas chiedeva a Magdalena era di incontrarsi per perdersi insieme, la pelle che parla alla pelle, il desiderio che zittisce le parole.

E se è vero, com’è vero, che il Subcomandante è un’invenzione letteraria, l’opera zapatista e il “flor della palabra” rivoluzionaria passano alla Storia come le “ombre di tenera furia” che sono. E resteranno. Nella notte lunga 500 anni in cui muoiono gli indios.

(Tutti i comunicati dell’EZLN sono disponibili sul sito Enlace Zapatista, molti dei quali tradotti in più lingue)

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