Diceva Francis Scott Fitzgerald che a volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere.
Ho avuto questa frase in testa per tutto il percorso lungo duecento e poco più pagine che hanno raccontato di Ida, della vita in attesa, del tempo che ci ostiniamo a tenere sospeso mentre quello, balordo seppur incolpevole, passa comunque, ci invecchia e poi ci ammazza senza avviso.
Ho odiato Ida.
Ho odiato quella supponenza che solo il dolore dà perché sostanzialmente pensiamo sempre di essere gli unici a soffrire. Non solo: gli unici a soffrire così tanto.
Ida ha 13 anni quando suo padre diventa un fantasma a tutti gli effetti, dopo anni in cui, di fatto, era solo una massa fisica inerte all’interno d’una casa sempre più cupa. Non muore, non avvisa: esce e non fa più ritorno. Potrebbe essere ovunque, morto o vivo. Ida diventa un compendio delle nevrosi ereditate dai genitori, e poi ci mette del suo.
In primis, Ida si prende il lusso di ritenersi in un certo modo responsabile dell’evaporazione paterna. Perché? Perché a 13 anni ci sentiamo unici e siamo convinti che quando dormiamo la Terra smetta di girare. Ida però persevera, Ida ha il dolore negli occhi anche dopo anni, Ida dà sempre l’impressione di aver capito la vita un po’ prima e un po’ di più degli altri.
In realtà Ida non ha capito nulla, zero, perché Ida ha passato la vita guardando il posto vuoto e non quelli occupati, Ida ha rincorso lo spettro d’un padre che l’ha abbandonata e ha goduto nel crogiolarsi in una colpa che non ha ma che l’aiuta a sentirsi parte d’un evento che l’ha esclusa, un accadimento che la prescinde e sul quale non ha controllo. Ida s’è scontrata col libero arbitrio e su quell’altrui volontà ha certosinamente costruito un’infelicità che ha voluto raccontarsi inevitabile, quasi genetica, tramandata dagli avi come vecchi cucchiaini d’argento che nessuno ha mai usato.
E la vera antagonista di Ida non è la madre, donna che s’avverte solida dopo aver digerito la rabbia; lei, sì, avrebbe potuto interrogarsi su eventuali colpe ma non lo fa, perché trovarsi in fallo schianta il terreno sotto i piedi. E il gioco al senso di colpa dal gusto inevitabile ma ostinatamente cercato di Ida, forse, sfavilla proprio per la consapevolezza d’essere innocente: si cosparge il capo di cenere sapendolo senza macchia.
L’antagonista di Ida, la sua controparte sana, si diceva, è Sara, l’amica di infanzia e adolescenza che attorno ai vent’anni l’allontana senza particolari spiegazioni, questa volta un fantasma raggiungibile ma sempre fantasma, e Ida non la ferma, non la cerca, non guarda quel posto occupato cercando di conservarlo tale, Ida deve essere infelice e dunque lascia che l’amica di sempre diventi estranea.
Ida, Ida che torna da Roma in una Messina di settembre in bilico tra l’estate che cede e l’autunno che non si vede ancora, una stagione fantasma, un altro spettro, che deve decidere cosa tenere e cosa buttare perché la mamma è stanca di attese e vuol vendere la casa dell’abbandono, il luogo del delitto mai compiuto, le fondamenta dell’infelicità sperata. È qui che Ida, donna di quasi quarant’anni appagata lavorativamente e con un matrimonio pieno di spifferi e scricchiolii, cresce e diventa donna improvvisamente. Non più un semplice corpo adulto con dentro un grumo di dolore grosso come un pugno che pompa nostalgica e tragica sofferenza a intervalli regolari senza esaurirsi mai, ma una donna che salta 25 anni e prende consapevolezza del dolore altrui, delle ferite sanabili e di quelle irreparabili, della strada a cui conducono quest’ultime. Un’alba, un’epifania, un roseo bagno d’umile realtà, perché Ida era regina nel suo dolore, imperatrice dispotica seppur illuminata nel suo regno di sofferenza che s’autoalimentava. È scesa tra i mortali in carne e ossa, Ida, ha guardato in faccia la smorfia grottesca della sofferenza degli altri, quella che lei non aveva mai sospettato esistesse. Il padre l’abbandona e la rifiuta, dunque s’attacca al nevrotico dolore dell’assenza, l’unica cosa che resta coi ricordi, e si costruisce un piedistallo su cui s’adagia lieve come una nuvola e pesante come un masso: “guardatemi, non capirete, io sono Ida e soffro”. Stupita, scopre carne e sangue anche negli altri. Il dolore rende egoisti.
Ed è appunto Sara, la controparte matura, sana, non autoindulgente in un dolore mefitico, a farle presente l’ovvio: tu sei il tuo dolore e basta perché lo hai scelto, e per i dolori altrui posto non ce n’è. Non solo: non c’è posto neanche per la felicità, di Ida stessa e degli altri. Il dolore deve fagocitare ogni embrione di gioia, la felicità è un nemico da combattere e che tende subdoli agguati.
Anche perché, come si fa ad essere felici se a tredici anni hai deciso che non lo saresti stata mai più? È come andare in bicicletta oppure senza la pratica costante si perdono teoria e tecnica?
Ho odiato Ida.
Perché indulgere nella sofferenza conosciuta costa meno fatica che tentare una felicità ignota. La comfort zone satura di sofferenza è una dipendenza difficile da riconoscere e combattere. Fa l’effetto della domenica mattina d’autunno, quando fuori piove e fa freddo, e puoi stare a rotolarti un po’ nel letto, un tepore accogliente da cui staccarsi è difficile.
Ma in quella manciata di giorni a Ida ne capitano troppe, di parole inciampate e di vite altrui, per restare a letto mentre fuori piove.
Ida s’è poi alzata, alla fine; ha preparato il caffè, ha ripreso il mare e ha detto addio fantasmi.
“Addio fantasmi“ di Nadia Terranova è una perla di romanzo edito da Einaudi, in libreria da settembre 2018. Se non si fosse capito, l’ho amato molto, e Nadia Terranova ha una prosa forte ma malinconica, terapeutico-traumatizzante: bisogna mettersi comodi ed essere consapevoli che si finisce in poltiglia. Ma poi si salutano i fantasmi.
“Ma il pericolo della felicità degli altri era sempre in agguato, avrebbe potuto offenderci di continuo, non potevamo smettere di difenderci mai: la nostra cordialità presidiava la ferita come un cecchino, difendeva con le armi il confine fra noi e il mondo. Quando invece eravamo al sicuro, io e mia madre senza tregua insabbiavamo, e insabbiando espiavamo”.