“Lasciami l’ultimo valzer” avrà forse bisbigliato Zelda Sayre, vedova Fitzgerald, in quella giornata di quasi primavera in cui è morta arsa viva, legata al lettino in attesa dell’elettroshock, occhi chiusi stretti e labbra ormai serrate perché al suo urlo non risponde nessuno. Nessuno nella clinica e nessuno nella vita, con Scottie adulta e lontana e Scott sotto terra da 8 anni.
È il 1948. Zelda ha 47 anni, di cui venti trascorsi con Francis Scott Fitzgerald, prima flapper della storia, prima vera musa glamour dell’emancipazione femminile statunitense, due tentativi di suicidio, una figlia, un’ossessione per la danza che la distruggerà ma che le farà guadagnare un invito ufficiale tra le file del corpo di ballo del San Carlo di Napoli, un romanzo osteggiato dal marito, ambizioni da pittrice sfumate che la consegneranno definitivamente all’oblìo delle cliniche psichiatriche con una impietosa e irrimediabile diagnosi di schizofrenia.
Un’esistenza passata ad essere sempre il simbolo di qualcosa, lei e suo marito essenza stessa dell’età del jazz, 4 anni di felicità su 20, vagabondare tra lusso e miseria, tra pazzia e alcolismo, tra Europa e Stati Uniti. E poi lei scrive “Lasciami l’ultimo valzer” nel 1932, mentre si trova rinchiusa in una clinica per malattie mentali, e il romanzo altro non è che la sua storia, quella di suo marito, quella che lui non riesce a scrivere nonostante ci provi da anni e che diventerà poi “Tenera è la notte” ma solo 2 anni dopo.
Francis Scott Fitzgerald, lui pure simbolo, simbolo dei “ruggenti anni ’20”, simbolo della Lost Generation, amico ubriacone di quell’ubriacone di Ernest Hemingway, quest’ultimo da sempre in rotta con Zelda, “sei una povera pazza” “e tu un finocchio dalla schiena pelosa”, Francis Scott Fitzgerald sul lastrico dopo il crollo della borsa del ’29, sempre in bilico tra autodistruzione e edonismo, autoassoluzione e colpa. Scott pieno di whisky, risentimento e debiti, Scott che considera Zelda la causa della sua vita infelice, e lei anziché farsi perdonare gli ruba il romanzo della maturità. La storia così profondamente autobiografica raccontata da Zelda si intreccia strettamente al loro matrimonio, quello che sembrava una fiaba e che finisce invece in modo disastroso, con Scott sempre più lontano fisicamente da una Zelda sempre più incastrata in una forma di schizofrenia incurabile.
“Lasciami l’ultimo valzer” avrà pensato Scott quando nel 1938 decide di partire per Cuba con Zelda. Balleranno per l’ultima volta, odiandosi in maniera feroce e senza rimedio, torneranno distrutti e divisi, poveri e malati, provati e dimenticati. Lei di nuovo reclusa in clinica, lui in cerca consolazione femminile e lavoro a Hollywood. Dopo quel viaggio, non si rivedranno più. La coppia d’oro dell’età del jazz è morta. Il 21 dicembre 1940, Scott muore davvero, d’infarto, a 44 anni. Zelda non parteciperà al funerale, ci sarà solo un gruppo di passate glorie irrimediabilmente alcolizzate come Fitzgerald, e una Dorothy Parker distrutta dal dolore che urlerà sulla bara di Scott “poor old bastard“, citazione disperata presa dal Gatsby dell’amico.
“Fitzgerald? È ancora vivo?” si chiedevano a Hollywood quando una sceneggiatura di Scott finiva su qualche scrivania. Anni buttati lavorando sul suo romanzo più crudo, violento e doloroso, quel “Tenera è la notte” poi partorito con dolore. La furia riservata alla moglie internata dopo l’uscita di “Lasciami l’ultimo valzer” era dovuto a questo: anche “Tenera è la notte” parlava di Scott, di Zelda, del matrimonio, dell’amore, della disillusione, si ispirava a sé stesso e a loro due come aveva fatto per tutta la vita, raccontando in questo caso la fine di un matrimonio che sembrava perfetto ma era solo una farsa, una posa, un pretesto, un atto di coraggio sconsiderato pagato carissimo. Zelda Sayre, per questo, era una “plagiaria” a detta d’un marito colmo di frustrazione, che la considerava il suo tormento, la sua rovina, eppure senza di lei non avrebbe mai potuto essere Francis Scott Fitzgerald. Per sposare Zelda s’affrettò a terminare e pubblicare “Al di qua del Paradiso”, e senza quella spinta, forse, chissà.
E al suo funerale, al funerale di Scott, quei pochi, pochissimi, tutti scrittori, tutti intellettuali, tutti relitti affondati della Lost Generation, tutti dediti al bere, tutti a riconoscersi in quel corpo gonfio di acredine e alcol che dimostrava 20 anni in più dei 44 che aveva davvero. La sorte poi è sempre ria e sempre bara, Fitzgerald muore semi dimenticato mentre scrive l’ultimo romanzo, “Gli ultimi fuochi”; pochi mesi dopo il romanzo viene dato alle stampe e diventa un successo. E a lavorarci su è Zelda Sayre, è lei a rimaneggiare il romanzo intuendo le volontà e le disposizioni letterarie di suo marito.
Zelda Sayre, la plagiaria, scrittrice di terz’ordine, la pazza, la ballerina, la scrittrice, la moglie, la madre, la pittrice, quantunque compiutamente e per la storia solo la pazza, la pazza raccontata in “Tenera è la notte” e che ha distrutto il talento dell’autore, la vedova Fitzgerald, che bisbiglia “lasciami l’ultimo valzer” mentre il mondo attorno a lei brucia in ultimi fuochi e legata al lettino dell’elettroshock aspetta di morire.
Per approfondire: “Lasciami l’ultimo valzer e altri scritti” di Zelda Sayre, Eliott Edizioni, 2018; traduzione di Maria Gallone e Loretta Santini, prefazione di Tiziana Lo Porto.