Prima di iniziare a creare dei contenuti per un piano editoriale per i social, per un blog o per una newsletter, ci troviamo davanti ad una mole di dati più o meno ricca, più o meno interessante, più o meno utile ma inattaccabile, incontrovertibile. Per esempio, se i dati ci informano del fatto che il nostro sito è frequentato principalmente da donne tra i 35 e 45 anni, e quel target anagrafico concorda con gli obiettivi del brand, è su quel dato inattaccabile e non smentibile che dobbiamo costruire la comunicazione. Poiché i numeri e le percentuali sono effettivamente qualcosa di indiscutibile, uniti poi al tone of voice, alla mission e alla vision dell’azienda (sì lo so, chiedo scusa) e ai suoi KPI (rinnovo le scuse) il piano editoriale è praticamente blindato e legato a fattori che non possiamo né abbiamo motivo di modificare.
Il creativo è da sempre visto come un individuo che gira con una Moleskine in tasca e prende appunti sulla vita, sulla gente, sui lampioni, si siede al bar, alle 11 sorseggia un caffè corretto mentre gli altri lavorano, alle 18 sorseggia uno spritz mentre gli altri escono dal lavoro, alle 23 sorseggia un prosecchino mentre gli altri vanno a letto. Considerato che questa vita creativa ha portato rogne perfino a uno come Ernest Hemingway, grande fan delle Moleskine, direi che alla soglia del 2020 possiamo abrogare questa romantica immagine alcolico-nullafacente e dire che il talento creativo è innato, ma la creatività si può allenare e sarai davvero un creativo quando sarai in grado di maneggiarla nei tempi in cui ti occorre. George Simenon, più di 430 scritti pubblicati in 50 anni, era un genio regolare, aveva trovato una sua routine di scrittura, si sedeva alla sua scrivania e imponeva a sé stesso di battere un certo numero di cartelle. Ogni giorno, per 50 anni. Ma anche Simenon raccoglieva dati: spulciava elenchi telefonici e stradari alla ricerca di nomi e vie evocative, attraverso l’archiviazione mentale delle persone che incontrava dava volto, vita e carattere ai personaggi ben prima di avere la trama e ben prima di decidere se stesse scrivendo un romanzo o un racconto, e se lo avrebbe poi pubblicato come Simenon o con uno dei suoi tanti nom de plume, scegliendo quindi un tone of voice diverso in base al medium e in base al target di lettore, oltre a prevedere una mission e una vision diverse in base a queste scelte ultime. E, soprattutto, cambiava l’obiettivo finale.
Chi scrive per il marketing e fa storytelling orientato agli obiettivi commerciali sa che lì fuori è pieno di validissimi manuali e validissimi docenti. Ci mette poco, però, a capire che fare un calco dei percorsi altrui non basta. Negli anni, ho creato il mio percorso mentale partendo da un’autrice che col marketing c’entra davvero poco e probabilmente non definirebbe sé stessa solo “scrittrice”, essendo stata docente universitaria per tanti anni. Parlo di Serena Vitale. Slavista di fama internazionale, immensa e sconfinata conoscitrice della lingua e della cultura russa, Serena Vitale per me è tutto ciò che uno scrittore dovrebbe essere, perché è riuscita nell’impresa che tutti gli autori e tutti i marketers si pongono: creare un coinvolgimento assoluto partendo da dati oggettivi.
Nel 1995, per Adelphi, Serena Vitale pubblica un libro intitolato “Il bottone di Puškin “. Aleksandr Puškin è per la Russia ciò che per noi è Dante: genio poliedrico che ha avuto un peso enorme nell’acquisizione e nello sviluppo di una lingua letteraria (e non solo) moderna e che ha influito a 360 gradi in tutti gli ambiti umanistici, dalla filologia alla drammaturgia, dalla prosa alla poesia. Puškin era una sorta di rockstar molto nota ai suoi tempi, in perenne rapporto di odio-amore con lo zar Nicola I. Nel 1837, a 37 anni, muore in duello, creando un caso politico e sociale. Politico perché è stato ucciso da un ufficiale francese da poco adottato dall’ambasciatore dei Paesi Bassi in Russia (e una delle sorelle dello zar era sposato con l’imperatore dei Paesi Bassi); sociale perché i duelli erano vietati con leggi rigorosissime e disprezzati a livello morale, dunque chi vi partecipava esponeva la propria famiglia (e sé stesso, nel caso di ferite non mortali) ad una vita dura e senza futuro. Serena Vitale traccia un profilo psicologico di Puškin, ricostruisce gli ambienti in cui si è mosso, il clima culturale in cui ha vissuto, riannoda le vite delle persone a lui più vicine. Fa tutto questo partendo da dati oggettivi, raccolti attraverso i documenti consultati in diversi archivi sparsi tra Mosca e San Pietroburgo. Ha catalogato corrispondenza, opere, dispacci, telegrammi, memorie dei contemporanei, comunicazioni da parte della censura e dello zar, testimonianze processuali. In quel libro non c’è un solo personaggio inventato, non c’è un solo fatto non documentato, è uno dei primi casi di non-fiction della letteratura italiana. È storicamente documentato e attendibile ma non è un saggio storico. Riporta ricchi dettagli della vita di Puškin, ma non è una biografia. Ci racconta del ruolo culturale svolto dal poeta e del suo lascito, ma non è un saggio critico.
Insomma, Serena Vitale ha raccolto una mole di dati più o meno ricca, più o meno interessante, più o meno utile ma inattaccabile, incontrovertibile, e ha scelto il suo obiettivo finale: cercare di capire perché un genio si sia fatto coinvolgere in pettegolezzi e fatti di corna fino a farsi ammazzare, rischiando la reputazione sua e della sua famiglia, mettendo a rischio il futuro dei suoi figli e del suo nome da consegnare alla storia. Su quei dati, orientati all’obiettivo, ha costruito uno storytelling che nulla ha a che fare con l’accademico tone of voice di un saggio, e per questo riesce ad ampliare notevolmente il suo target e a creare un engagement che sui social avrebbe delle vanity metrics mostruose. Ovvio, parliamo anche di un’autrice coltissima che maneggia registri linguistici come noi comuni mortali maneggiamo una forchetta, ma non indulge mai nella lingua letteraria se non è funzionale al messaggio. Non è un libro solo per appassionati di Puškin o di Russia perché può essere letto come un romanzo, un romanzo che racchiude molti generi e che ha per protagonisti personaggi realmente esistiti. È ricco di aneddoti sull’epoca, testimonianze dirette raccolte da memoir, motti di spirito che ci danno anche un’idea dell’evoluzione dell’umorismo negli ultimi 150 anni. Serena Vitale è riuscita in una sorta di miracolo.
È a lei che penso quando devo iniziare a preparare un piano editoriale e ho davanti a me numeri ben poco creativi e tanti elementi da legare insieme. La immagino seduta alla sua scrivania, mentre legge centinaia di fogli in cirillico, copie di documenti raccolte in Russia, la vedo girare per i corridoi degli archivi post- sovietici e consultare fogli ingialliti. La vedo fare una cernita tra tutta quella mole di dati. E poi, finalmente, scrivere. In modo creativo, sì, ma senza dimenticare l’obiettivo.
Nel 2015 Serena Vitale ha pubblicato, sempre per Adelphi, un testo simile per modus operandi ma molto diverso per quanto riguarda tone of voice e il sentiment di ritorno post lettura. In questo caso, si è occupata del suicidio di Vladimir Majakovskij, mai del tutto chiarito, avvenuto nel 1930. S’intitola “Il defunto odiava i pettegolezzi“. In entrambi i casi, l’autrice non voleva spingerci a leggere Majakovskij e Puškin (cosa che comunque, collateralmente può avvenire ed è solo un collaterale positivo). Voleva tentare di capire, attraverso percorsi rigorosi basati non sulle opinioni ma sui dati, i “perché” e i “come” di due morti particolari che hanno avuto un certo peso nella storia politica e culturale russa prima, e sovietica poi. Mettere a confronto i due libri è un esercizio che faccio spesso proprio perché partono da una base simile ma sono estremante diversi sotto molti punti di vista.
A prescindere dal marketing, dai dati, dallo storytelling, dagli obiettivi, comunque, consiglio caldamente di leggere entrambi. Per un motivo semplice, banale ma reale: sono libri bellissimi. Tutto qui.
Dove trovarli?
- Il bottone di Puskin, Adelphi, 1995.
- Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, 2015.