Andrea Pomella s’è preso un bel rischio. Due anni fa ha pubblicato per Einaudi un memoir, L’Uomo che Trema, in un momento in cui la cosiddetta non-fiction era, in Italia, nel suo massimo splendore. Due anni, in un mondo che s’annoia di sé stesso nel giro di 15 ore, è un’enormità.
Di questi testi non-fiction nel frattempo ne sono usciti parecchi, alcuni molto belli come il primo di Pomella, altri mi hanno fatto pensare che forse prima di stampare la propria esperienza ritenuta raccontabile, bisognerebbe mostrare un equilibrio leggermente più definito. Ero scettica, non sono corsa a comprare “I Colpevoli” appena uscito come invece avevo fatto con “L’Uomo che Trema”. Ero stanca di realtà, in un anno in cui ti arriva in faccia a cazzotti pieni, e forse ero anche stanca di esperienze condivise e condivisibili, buone per immedesimarsi e dunque buone per continuare a gingillarsi l’ombelico e dare sfogo al pugnettismo duro che dormicchia in ognuno di noi. Ero stanca di quei libri che poi ti fanno commentare “ah, è successo anche a me”.
Errore mio.
“I Colpevoli” si legge in fretta. L’ho letto in una sola giornata e non perché sia semplice e leggero ma perché non vuoi interrompere quel discorso che Pomella inizia. Non per scortesia ma per interesse. Quello che scrive e racconta Pomella è avvolgente e le descrizioni che fa di S., le periferie romane degli anni 70 e 80, i bambini-adulti perfettamente in grado di badare a sé stessi perché non avevano scelta (salvo arricchire la crema della psichiatria qualche lustro dopo) ti piove addosso e sì, pensi “ah, è successo anche a me” ma faresti volentieri a meno di immedesimarti.
Pomella riannoda il filo interrotto nel memoir precedente e decide, dopo 37 anni, di riprendere il rapporto con il padre, reo di essersi innamorato di un’altra donna e di aver lasciato la famiglia quando Andrea era ancora un bambino. L’Andrea adulto, a tratti, si rende conto di aver nutrito una nevrosi autoimposta, si è inferto una sofferenza evitabile per 37 anni, in un mini delirio narcisistico che solo chi sta male prova e non dice. Perché Tolstoj s’è scordato di fare una ulteriore divisione: ogni componente della famiglia è infelice a modo suo e quando soffriamo siamo convinti di essere sempre quelli che soffrono di più. Pomella non prova a capire le motivazioni paterne, obiettivamente non c’è nulla da comprendere; Pomella si toglie i pantaloncini del ragazzino che non poteva accettare l’abbandono paterno e indossa oggi quelli ben stretti e a tratti scomodi del padre, dell’adulto, pensando forse di avere una morale fortificata e di essere migliore di quel padre che ha preferito una nuova donna, una nuova vita, lasciandosi alle spalle un ragazzino devastato.
Poteva essere una edificante storia sull’importanza del perdono ma Pomella non ha nessuna intenzione di essere edificante e infatti già a pagina 16 ci chiede “Che significa perdonare?” e giunge alla conclusione che “il vero perdono può perdonare soltanto l’imperdonabile”. Pomella divide il perdono in 3 fasi: offesa-comprensione-grazia. Ritiene, a ragione, che normalmente ci si infili forzatamente una quarta fase: il pentimento. Nota però che il pentimento avvicina l’offeso e il colpevole, riportando la partita su campo neutrale. Per il pentito può esserci compassione ma perdono no, mai. E si sforza, a suo modo, di ricacciare quella pietà che sente verso questo padre anziano che ha implorato di essere perdonato, espiando e comprendendo il male fatto, perché sa per primo che un rapporto basato sulla pietà sarà sempre corrotto. Passa attraverso quella sostanziale differenza che intercorre tra solidarietà e carità: la prima è orizzontale, la seconda è una concessione che scende dall’alto.
Tutto è bene quel che finisce bene, tutto è bene quel bene che non si disperde ma fa solo un giro lungo prima di riapprodare al suo posto? No. Perché Pomella sperimenta il tradimento. Pomella diventa infedele, tradisce la sua compagna, la madre di suo figlio, con una donna conosciuta su internet. Passa dall’altra parte della barricata, diventa come suo padre, diventa suo padre. Questa infedeltà avrebbe potuto prodursi in qualunque altro momento della vita di coppia ma si origina quando il legame padre-figlio si sta rinsaldando, quando Andrea smette di essere un intrepido soldatino di piombo che si autoinfligge la mancanza e s’incammina verso quei campi nemici inesplorati e stranieri che parevano incomprensibili e imperdonabili e che sono al tempo stesso le tappe della vita di suo padre. E s’intreccia al rapporto padre-figlio che Andrea costruisce con il suo bambino, ai bisogni che colma e che in lui non sono stati colmati, alle risposte che lui non ha avuto perché non c’era nessuno cui porre le domande.
Pomella dunque diventa un colpevole. E nella storia, dunque, diventano due. Lui e suo padre, lontani per 37 anni, avvicinati dalla stessa condizione di fedifrago, di traditore, di colpevole. Lo capisce e finalmente passa alla seconda fase: dopo l’offesa, la comprensione. Acquisita nella modalità più brutale e sfacciata: sul campo. “Noi abbiamo conosciuto la medesima angoscia, abbiamo patito l’attrazione troppo grande verso la libertà. Noi abbiamo sentito ridursi attorno a noi i margini della scelta individuale. Noi siamo correi”, scrive Pomella. E davanti a questo non puoi fare altro che arrenderti alla grazia che soppianta la compassione.
Questo libro voleva raccontare la riparazione, la pacificazione, il riavvicinamento al padre, il padre per trentasette anni perduto e ritrovato, voleva essere la cronaca della ricostruzione del padre. Ma comprendo solo ora che non lo è. Che è bensì, indiscutibilmente, una lettera dai giorni del perdono.
“I Colpevoli”, di Andrea Pomella, è in libreria dal 5 maggio 2020, edito da Einaudi. Qui potete leggere un estratto e acquistarlo online.