“Gli abitanti di Roma la consapevolezza delle cose ultime ce l’hanno nel sangue, ed è talmente assimilata che non genera più nessun ragionamento. Per chi abita qui la fine del mondo c’è già stata”.
Secondo Dante, quando Dio decise di punire Lucifero, il figlio più amato, lo scagliò dal Paradiso e lo lasciò a conficcarsi al centro della Terra. L’Inferno è un imbuto scavato dal corpo di Lucifero e si apre sotto Gerusalemme. Dopo millenni, non sappiamo ancora spiegare cosa ci sia sotto Roma.
Nel marzo del 2016 Roma vive una condizione unica nella Storia e probabilmente irripetibile: non ha un sindaco ma ha due Papi. In quest’attimo di sovvertimento di religione e politica, accade un fatto di cronaca che risveglia la città. Manuel Foffo e Marco Prato, trentenni di “buona famiglia”, ammazzano con centosette coltellate, alcune martellate e un tentativo di strangolamento Luca Varani, che di anni ne ha 23. I fatti “di contorno” sono noti: i due assassini si conoscevano appena, avevano avuto un fugace incontro sessuale la notte di Capodanno, si sono ritrovati insieme due mesi dopo, chiusi nell’appartamento di Foffo al Collatino per due giorni, imbottiti di coca, alcol e un malessere che solo Roma può dare, che tu sia povero o ricco, di buon famiglia (qualunque cosa voglia dire) o da una disagiata (qualunque cosa voglia dire). Dal momento in cui Foffo confessa a suo padre di avere un cadavere in casa sua e decide di costituirsi, parte l’osceno festival del grottesco. I pettegolezzi, i risvolti morbosi, i dettagli su ciò che è stato fatto a Luca, le specifiche sugli orientamenti sessuali dei tre coinvolti, carnefici e vittima, non manca davvero nulla per chi apprezza il concetto di macabro. Ad eccitare le pance c’è la domanda che non ha risposta: perché?
Non c’è movente. Luca è morto per caso, c’è stata una sorta di riffa della morte e lui ha avuto l’immane sfortuna di avere il biglietto vincente. Prima di lui, Foffo e Prato provano ad invitare altre persone, alcune neanche rispondono, altre si presentano ma riescono a svignarsela in tempo. Chissà cosa sarebbe accaduto se qualcuno avesse avvisato la mamma di Foffo, che viveva al piano di sotto. Ma erano due adulti, due adulti chiusi in casa, cosa poteva accadere?
Nicola Lagioia inizia ad occuparsi della vicenda immediatamente e immediatamente sente un’attrazione fortissima verso questo caso che è l’emblema dell’anima nera di una Roma che dai due papi non trae cristiano conforto e animata rettitudine ma pare anzi sfidare continuamente qualunque dogma, autorità, morale, principio. L’autore farà in tempo a spiegarci perché, tra le pieghe del suo passato di ragazzo inquieto e l’attrazione morbosa che Roma esercita su chi ci vive, si sia trovato risucchiato in questa storiaccia di cronaca nera. L’immedesimazione nel male, in quello che si fa e in quello che si riceve. Domandarsi se quello che in un giorno di marzo confessa a suo padre di avere un uomo morto in casa e non ne conosce neanche il nome potevi essere tu. O magari potevi essere il cadavere nudo e senza nome che giace sul tappeto della camera da letto da ore.
Quello che mi ha colpito è la sensazione che Lagioia abbia preso questo terribile caso per raccontare il suo personale rapporto con Roma, con le viscere di una città che non ha più niente da vedere, Eterna e quindi senza passato, presente o futuro, intrappolata nel suo cinismo, tra cinghiali e topi, gabbiani incattiviti e cumuli di monnezza ovunque. Come se il martirio di Varani fosse la goccia che fa traboccare il vaso, la red flag dei rapporti sentimentali tossici, nella sua totale insensatezza ed efferatezza. Lo senti soffrire mentre racconta di quanto Roma sia zona franca, di quanto venga naturale pisciare contro qualunque muro perché così fan tutti, di quanto sia facile comprare un minore che si prostituisce per fame, di quanto sia facile comprare coca per 2 giorni interi e di quanto sia facile ammazzare un ragazzo di cui ignori perfino il nome e incazzarti perché dopo ore di tormenti ancora respira. Ma l’amore che soffre è un amore che vive perché pur riconoscendo tutti gli orrori dell’oggetto del tuo amore, non te ne stacchi, ci provi, ma torni. E così ha fatto Lagioia.
E si chiede, mentre la vita della vittima inizia a presentare delle ombre che addolorano chi lo ama: “quanto bisogna riflettere su ciò che sappiamo di non sapere delle persone che amiamo? E se anche fosse possibile sapere tutto di loro, sarebbe giusto?” e aggiungo: le ameremmo lo stesso se sapessimo tutto? Ma il suo interrogativo è applicabile anche a Roma, quanto sia giusto riflettere sui segreti di questa città, e quanto sia giusto sapere davvero tutto, tutto, di lei. “La città dei vivi” è quell’Inferno dantesco, quell’imbuto con Lucifero conficcato al centro della Terra, è quella struttura fatta di cerchi e piena di dannati che piangono i loro guai sempre ingiusti. È una presa di coscienza: l’ammissione che senza un movente su cui basare il rifiuto di commettere un crimine vuol dire che vale tutto, può accadere, si può passare dall’essere un frustrato studente fuori corso e un PR pieno di idiosincrasie e diventare, banalmente e senza motivo, due assassini. E senza quel movente, quel motivo, quella base, viene meno anche la colpa perché, come scrive Lagioia, “il reo non è più capace di riconoscerla” e si vive come si vive ora, incapaci di imputare a noi stessi un’azione turpe, il male che da millenni ci forgia, protetti da un guscio che la responsabilità individuale non riesce più a forare. Foffo e Prato sono due esemplari del loro tempo, del nostro tempo, un tempo di parole costanti, continue, un tempo in cui tutti parliamo delle stesse cose virali (l’omicidio di un ragazzo o una gaffe vista in tv, fa lo stesso) ma stiamo esprimendo il nulla perché a nessuno interessa, nessuno ascolta, si parla per dire non per comunicare.
Se Foffo e Prato (morto suicida in carcere alla vigilia del suo processo, un’altra modalità per evitare la colpa, seppur definitiva e drammatica?) erano tutto sommato “due ragazzi normali”, vuol dire che il male è ovunque, nella normalità, e spazza via la vita di un altro ragazzo normale, con una famiglia normale (a Luca Varani, secondo la stampa, non è toccata “una buona famiglia” ma solo “dignitosa”: la bontà a quanto pare la fa lo status sociale). Per quanto atroce, quest’omicidio è un pretesto, con tutte le dovute cautele. È proprio quell’atrocità a renderlo un pretesto per ragionare su noi stessi, provare a non cercare la perenne giustificazione dei nostro errori e orrori.
Nicola Lagioia ci prova, scava, fa congetture, se ne va da Roma, ritorna, incontra la famiglia Varani, vede gli schieramenti, ascolta le pance che urlano sui social, conosce e condivide opinioni e pensieri di chi su quel caso indaga per dare giustizia a Luca, e mentre tutto questo avviene la preoccupazione di Foffo e famiglia, l’unico condannato per cause di forza maggiore a 30 anni, è far sapere di “non essere frocio”. E forse, centra il punto a poche pagine dalla chiusura di questo tour per le vie di Roma, tra le sue periferie e il centro, tra le battute e le bestemmie, tra il cinismo incancrenito e il giudizio facile.
“Se tuttavia, dovevo indicare, subito dopo l’istinto di sopraffazione, il male che mi sembrava precedere gli altri, l’avrei rintracciato in una particolare solitudine. La solitudine che, tanto più se affollata, ci fa marcire nel nostro ego, e che è tutt’uno con la paura di non essere compresi, di venire feriti, derubati, danneggiati, la paura che ingrassa le nostre sfere invisibili, che ci porta a calcolare nell’angoscia, la paura attraverso cui passa, pervertito, persino il bene che ci sforziamo di fare”.
“La Città dei Vivi”, di Nicola Lagioia, è in libreria dal 20 ottobre 2020, edito da Einaudi. Qui potete leggere un estratto e acquistarlo online.