“Il linguaggio è la casa della verità dell’essere.”
MARTIN HEIDEGGER
Sono passati trentaquattro anni da “Palombella rossa” e lo schiaffone di Nanni Moretti che urla “ma come parli! Le parole sono importanti!” eppure la percezione del linguaggio come forza agente sulla realtà è ancora un oggetto incompreso. Un linguaggio disarticolato, mediocre, distratto o, peggio, volgare, plasmerà esattamente quel tipo di ambiente. E se penso ad alcune mie esperienze lavorative, in cui si scambiava un black humor ben fatto con semplice scurrilità da scuole medie, mi rendo conto di quanto questo dato stia diventando quasi oggettivo. Se queste persone conoscessero Lenny Bruce e non solo Pio&Amedeo, lo noterebbero anche loro.
Le dittature avversano i poeti e gli scrittori non tanto per le idee politiche in contrasto con l’ortodossia di partito, quanto per la superiorità linguistica e, implicitamente, psicologica. L’incontrollabile capacità cognitiva di chi sa usare le parole terrorizza da sempre un ordine non democratico. Su questo, Iosif Brodskij ha scritto tanto e molto meglio di quanto potrei fare io, a iniziare dal primo processo che ha subito in Unione Sovietica.
La capacità linguistica articolata presuppone un’attività mentale e intellettuale complessa, dotata di uno spirito critico che in un mondo di imposizioni non può essere accettata.
Si possono ritrattare dottrine politiche e abiurare religioni, sia per salvarsi la vita che per veri cambi d’opinione, ma l’articolazione critica e tortuosa del pensiero è una capacità che non può essere strappata o imprigionata, per questo la capacità linguistica multiforme spaventa, da sempre, chi comanda. È la manifestazione evidente di una facoltà di pensiero capace di analisi profonda, che si pone la domanda e il dubbio, di rimando attende la risposta coerente.
Il linguaggio ha il potere assoluto di plasmare la realtà, il pensiero è identificato con il linguaggio, il quale può essere visto come una perfetta rappresentazione della realtà. Questo tra l’altro non lo dico io ma Wittgenstein che aggiungeva diffusamente “i limiti del mio linguaggio sono i confini del mio mondo”. Potremmo spiegare anche così un linguaggio dei mass media sempre più semplificato e polarizzato, sempre più standard e retorico, a prescindere dall’argomento. Danno comunque il peggio quando si tratta di malattia.
Dopo la morte di Mihajlovic, i media tradizionali (giornali e tv in primis) hanno ripreso la retorica del guerriero che si è arreso ma ha combattuto; così come dopo l’annuncio della sua malattia, s’è parlato dell’eroe che non si arrenderà, è solo una battaglia in più. Come se la leucemia e un derby all’Olimpico fossero la stessa cosa (ma sul nostro rapporto col calcio aveva ragione Churchill). Idem dopo la morte di Vialli. Questi due calciatori hanno trattato la malattia in maniera molto diversa e ne avevano diritto: quelli a rischio erano loro. Sinisa ha continuato col piglio da leader che ha sempre avuto, dicendo però “anche io ho pianto e anche io ho avuto paura, non c’è niente di male e non vi rende codardi”. Vialli ha sempre tenuto un atteggiamento meno incline alla sfida e più “cooperativo” con il suo tumore: ci sei, sei qui, sei un “inquilino”, ti tollero perché devo, però te ne devi andare.
Chi sta male ha il pieno diritto di scegliere il linguaggio che preferisce per approcciarsi al proprio percorso, non sta a noi giudicare. Diverso è il discorso per chi racconta la malattia altrui. Chi muore non ha perso, non si è arreso; chi guarisce non ha combattuto meglio o con più coraggio. Scaricare la responsabilità della guarigione sul malato stesso è abbastanza infame, lasciargli credere che se si alzerà ogni mattina col coltello trai i denti sopravviverà sicuramente, anche. Nella guarigione intervengono una serie di fattori incontrollabili e completamente esterni che ben poco hanno a che fare col paziente e i suoi cari: togliamo questo peso dalle loro spalle. Lasciamo che l’impatto fisico e psicologico della malattia venga gestito dai professionisti sanitari e non da narratori presuntuosi. Più che curarsi, un paziente non può fare. In generale, per la malattia come per il lutto, vale una regola sola: ognuno vive questi eventi come sente e i consigli sono offensivi sotto qualunque punto di vista. Fine.
Di entrambi, Miha e Vialli, s’è detto che hanno affrontato la malattia con “dignità“; tradotto: non si sono lasciati andare pubblicamente a urla e strepiti, le loro famiglie non sono andate in tv nei salotti televisivi a fare “spettacolarizzazione” del dolore. Eppure quel termine stride tanto e dolorosamente perché io avrei ben capito un Mihajlovic o un Vialli disperarsi, o le loo famiglie, e la mancata compostezza o la difficile accettazione del dolore non si traducono in mancanza di dignità. Non c’è un galateo del dolore, finiamola.
Le parole sono importanti?
E mentre si racconta di eroi, battaglie, talloni d’Achille, in questo ginepraio di metafore mitologiche, ne troviamo anche altre più specifiche. Non si dice cancro, non si dice tumore, si dice male incurabile (è incurabile dal principio o solo se il finale è quello non auspicato? E chi sta male dello stesso tumore, deve pensare di avere comunque una patologia incurabile?), si dice brutto male (perché a quanto pare ce ne sono anche di belli). D’altra parte per secoli l’epilessia è stato “mal caduco” e la tisi “mal sottile”, non possiamo stupirci. O forse sì.
Come sempre, la rivoluzione sta partendo dal “basso”, Da qualche anno in molti, attraverso i social, stanno facendo notare quanto sia nociva una rappresentazione di questo tipo, quanto faccia sentire inadeguate le persone che hanno solo la speranza di curarsi, quanto faccia sembrare dei piccoli vigliacchi tutti quelli che “non hanno battuto la malattia”. È incredibile come media e, spesso, anche chi gestisce la comunicazione corporate o digital di qualunque azienda, non riesca a recepire l’evoluzione del linguaggio. La lingua è l’organismo più vivo e mutabile di una società, è letteralmente creato e declinato dai parlanti secondo le esigenze, come si può pensare di utilizzare ancora sistemi e strumenti vecchi di anni? E questo non significa adottare pedissequamente qualunque innovazione venga richiesta (penso agli asterischi) ma significa contribuire a plasmare una realtà migliore, più sana, più palpabile e sensibile e meno retorica, meno trita, meno alienante seppur più faticosa perché non semplificata né polarizzata su due fronti opposti.
Quello della malattia è un esempio tra i più visibili, ma possiamo discutere su come viene trattato l’8 marzo (no, non è la “festa della donna”), l’uso reiterato di “inclusione” e “inclusività” come valori furbeschi (chi sono io per decidere di includere o non includere qualcuno in una data comunità? In che modo dire “ehi, dai, entra anche tu, ti includo” è positivo? Quando è stato stabilito che persone con un orientamento sessuale non etero o un colore di pelle diverso dalla maggioranza presente in un luogo o un corpo non standard per i canoni odierni debbano subire l’onta di vedersi inclusi con uno sforzo, come se non appartenessero già di diritto al genere umano? La soluzione più semplice e vera non sarebbe forse parlare a tutti e non mettere in risalto “parlo anche a TE perché io sono buono?”). Mi demoralizza vedere che su tanti argomenti dirimenti, siamo ancora al linguaggio di 30, 35 anni fa. Ci accapigliamo ancora per un femminile, per “assessora”, molti rifiutano in toto un discorso accademico-linguistico nato negli anni 80 (“assessora” è meno cacofonico di “cacofonico”, notiamolo) e al tempo stesso non riusciamo a raccontare la realtà con un linguaggio che la soddisfi e la descriva davvero, anche scegliendo figure retoriche ma che siano adatte al messaggio che vogliamo inviare. Se il messaggio è vuoto, cosa può arrivare?
Le parole sono importanti, già. Capire che il linguaggio è la realtà che costruiamo lo è ancora di più. Pensiamoci ogni giorno, questa sì che è una responsabilità.