Mia mamma indossava un abito in maglina nero con ampi fiori verde smeraldo e dei residui di spalline anni ’80, poiché s’era nel 1991. Le quattro stagioni erano ancora quattro stagioni davvero e se mia madre indossava quell’abito, era probabilmente autunno inoltrato oppure inverno. Me li ricordo quell’abito e quell’anno perché mio nonno era morto in un sabato di primavera e mia madre faticava ad accettare che il papà non ci fosse più. Me li ricordo quell’abito e quell’anno perché fu il mio primo contatto con una crisi di panico. Mia madre ne ebbe una mentre eravamo a un pranzo di famiglia e io la ricordo passarmi davanti sorretta da mia zia e mio padre mentre l’accompagnavano a stendersi, con una mano sul petto in cerca di aria, lo sguardo vitreo e il passo lento, rigido. Il lutto è un abbandono. Non voluto da nessuno, ma genera spesso rabbia, negazione. “L’uomo che trema”è un figlio che abbandona il padre perché il padre ha abbandonato il figlio, senza lutti che giustifichino, agli occhi di un figlio ancora bambino, quell’abbandono. Ma non è solo questo e quell’abbandono non può bastare a spiegare i successivi 37 anni di umor nero e di carattere difficile che si fatica a chiamare col nome medico corretto: depressione.
Soffro di questa malattia che la comunità scientifica definisce sommariamente depressione maggiore da quando ho coscienza del mondo, da quando cioè ho occhi e cuore per decifrare la realtà che mi circonda, perciò direi dalla più tenera età. Il mio problema è sempre stato quello di non attribuire dignità di malattia al modo in cui, appunto, decifro la realtà.
Andrea Pomella non romanza e non indugia, la depressione addestra i sensi alla lucidità e fa al tempo stesso lo scherzo meschino di cercare rifugi, scappatoie, scorciatoie. Ma scappare dal mondo nella propria testa non è mai un cammino che porta da qualche parte, o almeno non in posti piacevoli. Anche Andrea s’è dovuto fermare davanti al muro, all’orso, quella bestia feroce che compromette giornate, rapporti, lavoro, salute. Salute, quando il benessere temporaneamente precario della mente viene ancora visto, oggi, come uno stigma. Oppure ridotto a merce da social, con il linguaggio leggero che ormai non ha più argine, con “depressione” usato al posto di tristezza, svogliatezza, malinconia. Sentimenti normali e non patologie clinicamente trattate, come accade a 11 milioni di italiani, con un uso di psicofarmaci che in Italia è 4 volte maggiore rispetto al resto d’Europa, il più delle volte una somministrazione non accompagnata da una psicoterapia di supporto.
“L’uomo che trema” è un memoir che non ha fini didascalici o edificanti, è il racconto netto e crudo di un uomo adulto che va in pezzi e cerca una modalità per rinsaldarsi. Un’esistenza che resta sospesa e in allerta, in attesa di un attacco di panico, di una crisi di ansia, di un pensiero definitivo e oscuro che nasce guardando un tubo verde per innaffiare, la volontà che ferma l’irreparabile, l’indifferenza di sé e al tempo stesso il narcisismo della depressione che ci fa sentire come gli unici depositari di tutto il dolore del mondo. Un’esistenza, s’è detto, che si ferma, ma solo dentro lo stomaco e dentro la testa del protagonista, perché fuori si deve lavorare, fuori c’è un figlio da crescere, una mamma che invecchia, una compagna che accudisce, il tempo che passa e nutre quell’orso, consapevoli sempre del fatto che “io sono l’orso, io sono la minaccia, io sono il male di cui soffro”. Perché alla fine, quello è il succo: è un male che esiste e divora ma è una lotta interna tra un Sé e un Me, tra un Io e un Me Stesso, una lotta che usa i traumi come campi di battaglia, te li ripropone e te li fa ingoiare senza mai darti modo di digerirli davvero.
Le psicoterapie insegnano l’autocoscienza senza sovrastrutture, l’analisi di sé senza la riflessione ossessiva, e io le ho imparate dalle mie. Il protagonista de “L’uomo che trema”, anche. Insegnano, anche, una sincerità verso sé stessi che sfiora quasi la ferocia, mentre questa onestà cerca di non subordinarsi alla lucidità della depressione. Insegnamenti mai privi di lividi. La mente dissemina di tranelli il percorso e non farsi fregare da sé stessi è un esercizio sfiancante ma necessario alla sopravvivenza.
Andrea Pomella è sopravvissuto e ha raccontato la sua depressione in modo mai stucchevole, senza autoindulgenza, senza voler creare una sovrabbondanza di suspense nella narrazione dei momenti più crudi. D’altro canto non è un diario segreto né tanto meno l’asettico resoconto del decorso d’una patologia. È semplicemente una storia vera che andava raccontata, una tra quelle degli 11 milioni di italiani depressi, e che andrebbe letta. Anche più volte, in momenti diversi.
Il titolo “L’uomo che trema”, come spiega l’autore “viene da una pagina di “Grande Sertão” di João Guimarães Rosa”. Il memoir è pieno di riferimenti letterari e musicali, da Foster Wallace a Kafka, da Giuseppe Berto a Santa Teresina, da Elliott Smith a Gadda, con “i soggiornini dei piani bassi di Roma” che rappresentano visivamente la mente di un depresso: poca luce, aria asfittica, rumori di fondo che non smettono mai di grattare l’aria. Finché qualcuno non sfonda una parete e fa entrare il sole.
“L’uomo che trema” di Andrea Pomella è in libreria dal 18 settembre, edito da Einaudi.