“Sin da piccola ho imparato che la complicità e le risate tra le donne oppresse sconfiggono il mostro. Questa è la mia storia di violenza patriarcale, ma soprattutto di quell’amore rivoluzionario che mi ha insegnato mia madre”.
Itziar Ziga
Qualche settimana fa arriva il postino, biascica qualcosa al citofono e capisco solo che ha lanciato un pacco nell’atrio quando ho aperto il portone. Trovo la busta gialla che Emmanuele mi invia quando spedisce i testi di D Editore. Era una giornata pesante, una di quelle in cui pare non sia mai sorto il sole. Mi rimetto a lavorare e aspetto le 18 per aprirlo. Cosa c’era lo sapevo. Cosa avrei letto lo immaginavo. Eppure.
Alle 18 apro il pacchetto e mi trovo davanti una donna che fa l’occhiolino da una foto in bianco e nero e una banda rossa con su scritto “La felice e violenta vita di Maribel Ziga” in nero spesso. Inizio a leggere. Alle 18:10 scrivo a Emmanuele su whatsapp. “Sono a pagina 24 e già piango. Molto bene”.
Questa non può e non vuole essere una particolareggiata recensione di un libro appena arrivato in libreria. Non lo sarà per due motivi. Il primo è che D Editore è una famiglia che mi ha accolta e potrebbe dunque apparire ridicolo scriverne una come se tutta la gilda non fosse vicina al mio cuore. Il secondo è che la storia che D Editore ha pubblicato potrei averla scritta io. So che io non l’avrei scritta così bene. So che io avrei consegnato a un editore l’ennesimo mémoire in cui la narrazione ombelicale dei fatti miei avrebbe urlato “io io io” ad ogni pagina, mettendo a disagio il lettore e non lasciando nulla se non una certa compassione per me, povera vittima. Avrei cioè dato a un editore il 99% della non fiction che potete trovare in libreria da qualche anno a questa parte. Per fortuna questa storia l’ha raccontata Itziar Ziga che di mestiere fa la giornalista, la saggista e, in egual misura, di mestiere fa la femminista, l’attivista e l’anarchica. Perché la lotta sociale, bambini miei, è un lavoro.
La Maribel Ziga del titolo è la mamma di Itziar. Donna piena di vita, pronta a fare festa, esuberante, sicura e allegra sui suoi tacchi alti, Maribel vive in uno dei periodi storici più oscuri della storia recente ed è costretta a rinunciare al suo desiderio di laurearsi, crearsi una professione, vivere dove e come le pare: il franchismo non fa prigionieri, anche quando sembrano respirare ancora. Maribel si sposa e ci mette poco a capire che quel marito è manesco, violento, manipolatore. Il divorzio non era contemplato nell’ordinamento spagnolo e forse anche la testa di una donna cresciuta sotto quella cappa non era programmata per contemplarlo. La violenza domestica era strutturale e accettata, una consuetudine, come il caffè a fine pasto.
Affronta i fatti narrati senza indulgere mai nella morbosità. C’è una delicata educazione verso il lettore (ed è una grande lezione da imparare, in un mondo in cui si lanciano parole ovunque) e verso sé stessa, la sua famiglia. Un pudore che non nasconde la realtà vissuta né l’edulcora. Sceglie solo e con molta sensibilità come trattare un argomento tanto doloroso. Certi dettagli avrebbero potuto dare meglio il senso del dolore? Solo se hai l’empatia di un piatto di ceramica, credo. Quel che narra basta e avanza, non c’è stato bisogno di raccontare le atrocità con minuziosità grottesca.
Proprio per questo, proprio perché la storia di Maribel, di Itziar, di sua sorella e suo padre possiamo ritrovarla in milioni di altre vite, possiamo domandarci: vale la pena raccontarla? Centoquarantadue pagine dopo, 120 minuti di lettura fagocitante perché ti mangia l’anima e ti va bene così, posso rispondere di sì. Non è un mémoire che Itziar scrive per sé. Lo scrive come un atto di rivoluzione sociale, di aderenza a un principio di sorellanza. Entrambi i suoi genitori sono morti. Non ha colpe private da addossare o vittime da riscattare. Lei stessa non vive ripiegata sulle sofferenze che ha subito. Itziar scrive come atto sociale. Scrive per rappresentare la memoria di una società e di un sistema che continuano a oscillare tra abuso e pietismo senza cercare vere soluzioni a una violenza di genere che continua a mietere vittime.
Itziar Ziga ribalta semanticamente la sua esperienza e quella di sua madre; la vita di Maribel è prima “felice” e poi “violenta” perché, nonostante tutto, è riuscita a non soffocare la sua natura, la sua personalità. È riuscita poi a separarsi dal marito, anche se non si sono mai davvero allontanati. E nelle parole che Itziar ci fa ascoltare dalla bocca della madre, Maribel non aveva intenti di vendetta. Dentro, sentiva che anche quell’uomo violento era una vittima della struttura sociale in cui viviamo. La stessa Itziar racconta che dopo aver picchiato sua moglie, il padre “era incapace di verbalizzare la sua tragedia”, impossibilitato a capire il fondo della sua azione. Mancava degli strumenti necessari per analizzarsi. E nel luogo non traumatizzato che l’adulta Itziar si è costruita, in cui le donne non sono più isolate, accoglie anche gli uomini, affinché “anche loro possano non sentirsi così isolati, e smettere di essere così pericolosi, così disgraziati, così impossibili”.
Ho faticato a scrivere queste poche righe, perlopiù sconclusionate. Per mettere ordine, leggete “La felice e violenta vita di Maribel Ziga”. Dal mio luogo non traumatizzato ringrazio Emmanuele, D Editore, Itziar. E soprattutto Maribel Ziga.
“La felice e violenta vita di Maribel Ziga”, di Itziar Ziga, è in libreria dall’11 febbraio 2021, edito da D Editore. Qui potete acquistarlo online.