#AneddotiMusicali: it’s better to burn out than to fade away, Kurt Cobain e le storie che vanno come devono andare

“It’s better to burn out than to fade away” lo trovavi scritto nei cessi e nei diari, sui muri degli oratori e sugli Invicta mezzi mangiati dal cane. Una tragedia generazionale per una generazione che non aveva altre tragedie perché le guerre erano di nicchia pure se vicine, perché di eroi ce n’erano pochi, perché l’epoca degli anni ’80 spensierati era finita, perché Freddie Mercury era già morto e c’era un vuoto da colmare, in quel decennio fatto di culi sodissimi e sani, di aerobica e macrobiotico, di AIDS ed eroina a pioggia.
In quel vuoto, in quello spazio, s’era seduto Kurt Cobain, non si capisce ancora quanto inconsapevolmente e quanto furbescamente, pronto o costretto a raccogliere l’eredità di “simbolo di qualcosa” nel decennio dell’iconoclastia pura.
Tutta l’aura romantica che circonda Kurt Cobain, il continuo definirlo “angelo” come se fosse un complimento, l’appioppargli un vergineo candore che lo mostra più come un idiota vero che un ingenuo alla principe Myškin, imperversa da ben prima dell’8 aprile 1994.”I hate myself and I want to die” era il titolo provvisorio di In Utero, uscito una manciata di mesi prima che lo ritrovassero con la testa maciullata e nessuno si stupì per quella testa bucata da una fucilata. Sembrava il normale e ovvio epilogo di una storia che aveva seguito tutto quello che il termine più amato dell’epoca racchiude: alienazione. Così si diceva di Cobain, “alienato”, figlio di genitori divorziati, marito della seconda vedova più odiata nella storia della musica, colei che fu “rifiutata dal Mickey Mouse Club ed ex spogliarellista al Jumbo’s Clown Room”, tanto per seguire l’indicazione biografica della diretta interessata, padre di una venticinquenne in lotta perenne con lo shampoo e che ha già fatto visita svariate volte a un chirurgo plastico. E che candidamente dice “non mi piacciono i Nirvana”.

Che brutta fine, Kurt Cobain, nel giorno del suo mai festeggiato cinquantesimo compleanno in cui viene tirato per la giacchetta di flanella da tutti, perché il vuoto permane, e meglio un morto del Club 27 che un vivo da classifica. Non mi sento di biasimare nessuno. In questo processo continuo all’animo candido del suicida, questo Werther che s’ammazza per protesta perché il mondo del music business è sporco e cattivo e lascia un’epistola dolorante e dolorosa pure lui, s’inserisce la versione “lo ha fatto ammazzare Courtney Love” e nella schizofrenia del trono vuoto da occupare entrambe le teorie sono valide, convivono, vengono espresse dalla medesima persona senza un dubbio, uno sguardo furtivo alla coerenza.

Ha inventato un genere o forse no, era un ragazzo disturbato o forse no, era troppo puro o forse no, era un gran paraculo o forse no, era drogato questo sì e forse 10 anni di eroina l’equilibrio un po’ l’erodono. Ma non faccio il medico e non lo so, so che forse dopo 23 anni dalla morte possiamo pacificamente affermare che se vuoi fare musica senza farti conoscere in giro per il globo, puoi continuare con la Sub Pop e non firmare con la Geffen.  La sua, quella di Cobain, è stata essenzialmente una storia sfigata, che doveva necessariamente finire com’è finita, era quello il lieto fine.

Riempire il vuoto, far accomodare un re, avere un’icona per battere l’iconoclastia, avere un santino nel portafogli, morto per mano sua o meno, serviva più da morto che da vivo e onestamente fatico a vederlo farsi un selfie con sua moglie e Taylor Swift quindi quasi quasi che culo che ha avuto. O magari no, sarebbe stato contento di farsi un selfie con Taylor Swift. Perché fondamentalmente Kurt Cobain non era stupido e come tutti sapeva mentire e se ti mettono addosso il mantello da super eroe un bel giorno apri la finestra e provi a volare. Poi ti raccolgono col cucchiaino.

Questo incessante scavare nella vita dell’Artista è un processo che ho sempre trovato ridicolo perché John Lennon diceva a Paul McCartney “ci mettiamo giù a scrivere i soldi per una nuova piscina?” e mica valgono meno, le loro canzoni. E quindi se Cobain fosse stato uno stronzo bugiardo, una maschera, una rappresentazione di quello che serviva, il culo giusto da mettere sul trono vuoto, ammazzato da una dipendenza o una moglie tradotti in fucilata, cosa cambia?

Ci sono storie che vanno come devono andare, quella di Cobain era la più pura rappresentazione della predestinazione, nichilisticamente cercata e a cui sarebbe comunque arrivato: “It’s better to burn out than to fade away”, scritto nei cessi, nei diari, negli oratori, sugli zaini. Courtney Love è stata più furba e nel ’98 in “Reasons to be beautiful” diceva “It’s better to rise than fade away”, chiedendo perdono “per tutto il suo dolore” in Best Sunday Dress.
Ma lei non era destinata ad occupare troni vacanti e spazi vuoti.

Un compleanno numero 50 che chiude un cerchio: è andata come doveva andare, la strada per l’inferno è lastricata di belle canzoni.

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